Deserto. Stati per esperimenti socialistici, da http://creativefreedom.over-blog.it/

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view post Posted on 15/4/2014, 11:25

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La carta geografica della suddivisione dell'Europa dopo il 1918, cioè all'indomani della prima guerra mondiale, fu pubblicata già 28 anni prima (1890) dall'inglese Labouchère sul settimanale "Truth" con Austria e Cecoslovacchia indipendenti, con la Germania suddivisa e con lo spazio russo sul quale erano scritte le parole: "Deserto. Stati per esperimenti socialistici" (Arthur Polzer-Hoditz, "Kaiser Karl", Zurigo 1928, pag. 91, in Rudolf Steiner, "Esigenze sociali dei tempi nuovi", Milano 1971, nota 20, pag. 300).
Dunque gli anglofoni volevano dominare il mondo schiavizzandolo economicamente con esperimenti socialistici in ambiti non anglofoni.
Anche l'odierno proficuo rapporto dell'Inghilterra e dell'America con l'euro e con l'eurozona mostra che come si intrapresero in Russia esperimenti socialistici che per precauzione non si vollero intraprendere in Occidente, generando la prima guerra mondiale, e poi la seconda come contraccolpo, così oggi le medesime potenze anglofone continuano ad esercitare la loro tendenza nel fare esperimenti monetari a spese dell'eurozona.
Da qui gli auguri di Pasqua alla regina dei PIGS affinché si incominci a pensare NON più da cattolici-che-nascono-cattolici-senza-mai-diventare-cristiani...
Affinché in nome del NOM, moneta individuale libera da MONOPOLIO di emissione non sia più possibile:
- ingannare gli indifesi (Gr 5,28; Am 5,11; Mi 3,1-3; Ez 22,29; Ml 3,5; Is 10,1-2);
- sfruttare le situazioni di bisogno con l'usura (Ez 18,10-13; 22,12; Ab 2,6-7; Es 22,25-27; Dt 23.19-20)
- farla franca nel commercio sottostimando beni e servizi o facendoli pagare più del giusto (Am 8,4-6; Dt 25,13-16);
- rubare, saccheggiare e massacrare il prossimo, evitando la pena corrompendo i giudici (Am 5,12; 6,12; Mi 3,9-11; Is 5,22-3; 10,1-2; Sf 3,3)..
Affinché chi vuole sperimentare altri socialismi, comunismi, e/o altri monetarismi impari a farlo in casa propria e non a casa degli altri...
da http://creativefreedom.over-blog.it/
 
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view post Posted on 22/8/2014, 11:32

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La famosa mappa con la Russia indicata come "spazio per esperimenti socialisti" potrebbe essere questa27969d233e2c
trovata su http://steiner-anthroposophie-nwo.blogspot...ux-guerres.html
La seguente, presa da www.abovetopsecret.com/forum/thread741027/pg1
28baf014dcd6
su www.lochmann-verlag.com/Crisis%20A5%2013th%20chapter.pdf
a pag. 5 del pdf porta in didascalia "Map of Europe: Excerpt from ‘The Kaiser’s Dream’, The Truth 1890"
Entrambe, ed altre, si trovano su http://pascasher.the-savoisien.com/2014/04...e-decadent.html
e sul citato sito della Lochmann Verlag.
 
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view post Posted on 22/8/2014, 17:35
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Per approfondire lil tema riporto un brano tratto da:
Rudolf Steiner - Riscatto dai poteri - L'enigma dell'europa centraletra Est e Ovest.

[QUOTE]

La «colpa» della guerra:
una domanda posta quattro anni dopo
Stoccarda, 21 Marzo 1921


Gentili convenuti, gentili commilitoni

La conferenza di oggi nasce da una domanda che mi è stata posta nella scorsa lezione del seminario di storia, sulla questione della colpa per la recente catastrofe bellica. Poiché l’argomento è così importante – anche dal punto di vista storico – non vi si può negare una risposta, per quanto è possibile in un ambito così ristretto, e con così poco tempo a disposizione.

Desidero premettere alcune osservazioni, in modo che sappiate come intendo affrontare la questione.

Non ho mai taciuto le mie opinioni su questo argomento, nelle ripetute conferenze che ho tenuto soprattutto presso il Goetheanum di Dornach. Né ho mai nascosto che, secondo me, queste opinioni sono quelle che più di tutte dovrebbero essere comunicate al mondo intero.

Non sono dell’idea che in questa questione così importante il giudizio obiettivo dovrà essere lasciato alla storia, come oggi si va continuamente ripetendo, e che soltanto in futuro si potranno giudicare obiettivamente questi eventi. Col passare del tempo, e soprattutto col perdurare dei pregiudizi, andranno perse tante possibilità di giungere a un giudizio valido su questa questione, quante forse sarebbe possibile acquisirne. Dico espressamente «forse», perché io stesso non credo affatto che si possa arrivare, in futuro, a un giudizio migliore di quello che si può già dare oggi. Questa era la prima cosa che volevo dirvi.

L’ho voluta dire per via di quegli attacchi – non intendo ora qualificarli in alcun modo – che in Germania vengono rivolti alla mia attività politico-culturale da quel gruppo che si può definire «pangermanico». Da questo gruppo devo aspettarmi che qualunque cosa io dica venga interpretata nel peggiore dei modi.

Del resto non credo sia necessario usare molte parole per difendermi da questi attacchi. La sciocca accusa che mi si rivolge, di intraprendere chissà cosa di antigermanico, cade da sola davanti al fatto che proprio durante la guerra il «Goetheanum» è stato costruito nell’estremità nordoccidentale della Svizzera, simbolo di ciò che, attraverso la vita spirituale tedesca, avrà da compiersi non solo all’interno della Germania, ma nel mondo intero!

Gentili convenuti, una simile testimonianza al germanesimo non necessita, credo, di spendere tante parole per confutare accuse malevole – poiché soltanto di accuse malevole si tratta.

L’altra cosa che voglio dire è che ho sempre avuto cura di non influenzare in alcun modo il giudizio di chi mi ascolta, e anche oggi cercherò di fare altrettanto – naturalmente è possibile riuscirci solo in parte, dovendo essere sintetici. Ogni volta che ho presentato un fatto o una circostanza, ho mirato a fornire gli elementi fondamentali affinché ognuno potesse formarsi un giudizio autonomo su questo o quell’argomento.

Così, come in tutti i campi della scienza dello spirito non anticipo mai un giudizio, ma cerco solo di raccogliere il materiale perché si possa arrivare a costruirlo, allo stesso modo voglio procedere con questi fatti della storia del mondo esteriore.

Entrando nel merito con un’osservazione, mi sembra che le discussioni odierne sulla «questione della colpa» siano più o meno tutte basate su premesse completamente prive di fondamento.

Con simili premesse si può arrivare indifferentemente a dire che tutte le colpe della guerra ricadono su Nikita, lo strano re di Montenegro, oppure che Helfferich è un uomo eccezionalmente saggio, o che l’allora grasso signor Erzberger, durante la guerra, non si è dato da fare in modo ambiguo, intrufolandosi in tutti i sotterranei della politica europea. Insomma, credo che con tali argomenti si può dimostrare tutto e niente.

Credo invece che sia del tutto giusto quello che di recente ha detto l’attuale ministro degli esteri tedesco Simons* nel suo discorso di Stoccarda, e cioè che è necessario trattare seriamente la questione della colpa – voglio solo aggiungere che questo dovrebbe anche succedere per davvero. Limitarsi a sottolineare che una cosa è necessaria non significa che si sta facendo quel che va fatto, quel che sarebbe necessario fare.

Che sia indispensabile esaminare la questione della colpa, gentili convenuti, lo dimostra il fatto che, in queste ultime infauste trattative di Londra, l’uomo di Stato più scaltro del presente, il signor Lloyd George, ha posto come premessa – come qualificarla? Si è davvero in difficoltà quando si cercano le parole giuste per definire i fatti dei giorni nostri – come dicevo, Lloyd George ha posto questa premessa: «Tutte le nostre trattative si fondano sul presupposto che secondo gli alleati dell’Intesa la questione della colpa è già decisa».

Ora, gentili convenuti, se tutte le possibili trattative presuppongono che la questione della colpa sia già decisa, quando non lo è, allora a maggior ragione bisogna cominciare a porla sul serio all’inizio dei negoziati, e trattarla con altrettanta serietà.

Va sottolineato chiaramente che, in fin dei conti, rispetto alla questione della colpa non c’è stato nessun fatto concreto, soltanto una singolare decisione da parte delle potenze vincitrici, basata in tutto e per tutto sulle regole attuali della politica mondiale: non su una valutazione obiettiva dei fatti, ma semplicemente su un diktat dei vincitori.

Per sfruttare appieno la vittoria, i vincitori hanno bisogno di dettare al mondo che la colpa della guerra è tutta della parte nemica. Non si può infatti sfruttare la vittoria nel modo in cui vorrebbero gli Stati dell’Intesa, e cioè – ammettiamolo pure – come secondo loro va fatto, se non gettando tutta la colpa sugli altri. Capirete bene che i vincitori non potrebbero agire come agiscono, se si dicesse: i vinti non vanno giudicati come sono stati giudicati durante la catastrofe della guerra. Di questo non si è mai parlato, e tutto il resto è soltanto letteratura, o nemmeno quello.

Il punto è che per risolvere la questione della colpa non è stato fatto niente all’infuori del diktat dell’Intesa, e, incomprensibilmente, è accaduto ciò che in fondo non avrebbe mai dovuto accadere: che questo diktat è stato accettato dai vinti, cosa di cui non ci si potrà mai rammaricare abbastanza! E non possiamo dire: abbiamo dovuto firmare per evitare di accrescere la nostra sventura.

Chi vede bene la realtà sa che l’attuale situazione mondiale può essere superata solo con la verità, e con la volontà di arrivare alla piena verità. Può anche darsi che all’inizio ciò conduca a circostanze tragiche – oggi però non c’è nessun altro modo per superare questa situazione.

I tempi sono troppo seri, richiedono decisioni troppo grandi, perché le si possa affrontare con qualcosa di diverso dalla piena volontà di verità.

Sottolineo che in così poco tempo non mi è possibile presentare l’argomento in modo che il contenuto delle mie frasi possa anche apparirvi pienamente convincente; ma almeno nelle sfumature, nel modo in cui cercherò di esporre le cose, nel come le presenterò, voglio darvi una base perché possiate formarvi un giudizio su questa questione. L’esperienza di lunghi anni e l’osservazione attenta del corso della storia mondiale mi hanno portato a constatare che, soprattutto nel popolo anglosassone, e in particolare in certi suoi gruppi, c’è una visione della politica in un qualche senso grandiosa.

Certi burattinai, se si può chiamarli così, hanno una visione della politica, della politica anglosassone, che potrei riassumere sostanzialmente come segue.

In primo luogo, dietro ai politici che agiscono pubblicamente – e che a volte sono solo uomini di paglia – c’è un buon numero di personaggi imbevuti dell’idea che la «razza anglosassone», per via di certe forze evolutive, abbia la missione di esercitare un vero e proprio dominio sul mondo, nel presente e nel futuro, per molti secoli ancora.

Questa convinzione è profondamente radicata nelle personalità che guidano la razza anglosassone, come lo è una certa concezione materialistica della strategia da adottare nel mondo. È radicata in loro in modo talmente forte, da poter essere paragonata all’impulso interiore che il popolo ebraico aveva, nell’antichità, per la sua missione terrena. Certamente gli ebrei dei tempi antichi avevano un’idea più morale, teologica, della loro missione, ma in realtà negli odierni leader della razza anglosassone l’intensità di questa visione è identica a quella degli antichi ebrei.

Abbiamo dunque a che fare innanzitutto con questo principio, con questa particolare concezione della vita che è propria del popolo anglosassone, dei suoi rappresentanti, e che si manifesta anche all’esterno. La maggioranza di costoro pensa che si debba sempre agire secondo quest’impulso verso il proprio compito mondiale, e che non si debba rinunciare a niente che vada in quella direzione.

Essi inculcano questa convinzione nell’animo dei politici di secondo piano – tra cui ci sono pur sempre i segretari di Stato – in un modo che, bisogna pur ammetterlo, è intellettualmente grandioso. Non credo che una persona all’oscuro di questo fatto possa essere in grado di capire il corso degli eventi mondiali dei tempi presenti.

Il secondo motivo, gentili convenuti, per cui si conduce una politica mondiale così funesta e distruttiva per l’Europa Centrale, è la lungimiranza! Dal punto di vista anglosassone questa è una politica di ampio respiro, lungimirante appunto, compenetrata dalla fede che a governare il mondo siano forze planetarie, e non le piccole forze pratiche da cui i politici presuntuosi si fan guidare così spesso. La politica anglosassone è grandiosa nel senso che conta su forze storiche mondiali, anche quando prende singoli provvedimenti di natura pratica. Inoltre al suo interno sanno che la questione sociale è una forza storica di portata mondiale, che deve trovare sfogo in ogni caso. Non c’è un solo personaggio che conta, nella classe dominante anglosassone, che non abbia freddamente e lucidamente pensato che la questione sociale deve assolutamente trovare uno sbocco.

Poi però aggiungono: essa deve venire alla ribalta, ma non a spese della missione del popolo anglosassone, della missione dell’Occidente. Lo dicono quasi con queste precise parole – le abbiamo udite spesso –: «Il mondo occidentale non è fatto per essere rovinato da esperimenti socialisti. Per questo ci sono i Paesi dell’est», e sono animati dall’intento di fare dei Paesi dell’est, e in particolare della Russia, un campo per esperimenti socialisti.

Di questa mia opinione ho trovato riscontri già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso – forse si può risalire ancora più indietro nel tempo, al momento non posso affermarlo. Già allora nel popolo anglosassone c’era chi, guardando le cose con freddezza, sapeva che la questione sociale doveva per forza irrompere all’esterno, ma si voleva impedire che ciò portasse alla rovina la civiltà anglosassone. Pertanto la Russia sarebbe diventata il Paese cavia per l’esperimento socialista. In base a questo orientamento è stata indirizzata tutta la politica, a quest’obiettivo si è teso con estrema determinazione.

Tutta la questione balcanica fu già trattata da questo punto di vista – compresa l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina all’ingenua Austria con il Trattato di Berlino. Da parte del mondo anglosassone fu trattato in quest’ottica anche l’intero problema turco.

Si sperava che gli esperimenti socialisti, se si fossero svolti come avrebbero dovuto svolgersi, – e cioè con la classe operaia fuorviata dai principi marxisti o simili –, sarebbero stati una bella lezione di nichilismo e distruttività. Sarebbero serviti da insegnamento all’intero mondo dei lavoratori, che avrebbe imparato che così non si arriva a nulla.

In questo modo si pensava di proteggersi, mostrando all’Oriente che il socialismo deve diffondersi secondo i dettami del mondo occidentale
.

Vedete, questi fatti, che in futuro potranno essere comprovati storicamente, stanno da secoli alla base della situazione europea, e di quella del mondo in generale. E qui osserviamo elementi della storia mondiale su un piano già più vicino al mondo fisico.

Ci basta leggere con attenzione quel che trapela dai discorsi del visionario Woodrow Wilson, il quale, proprio per questa sua caratteristica, è considerato in senso moderno uno storico competente. Noi però lo citiamo solo a dimostrazione di quanto sto dicendo.

Tutta la storia moderna mostra che l’Oriente, anche se normalmente non ci si fa caso, è stato considerato una specie di campo sperimentale per l’intera civiltà europea. All’osservatore imparziale non resta che constatare che l’Inghilterra è stata in un certo senso favorita nella sua missione dai recenti avvenimenti mondiali. E questo risale a molto tempo fa, a quando fu scoperta la possibilità di raggiungere l’India via mare.

Si può dire che è da questo punto che, per vie indirette, discende tutta l’impostazione della politica inglese moderna. Ci vorrebbero molte ore per trattare l’argomento, ma poiché sto rispondendo a una domanda posso solo accennare schematicamente a quello che io chiamo il tracciato della corrente mondiale, incanalato dalla missione inglese. Lo vedete qui: parte dall’Inghilterra e attraverso l’Oceano Atlantico passa tutt’intorno all’Africa, per arrivare in India. Osservando questa rotta si può imparare moltissimo: lungo questa direttrice lotta l’Inghilterra per via della sua missione, e lotterà fino all’ultimo sangue, se necessario anche contro l’America.

L’altra direttrice altrettanto importante è quella terrestre, che nel Medioevo ha giocato un grande ruolo, ma in seguito alla scoperta dell’America e alle conquiste turche in Europa è diventata inutilizzabile per il moderno sviluppo economico.

Gentili convenuti, tra queste due direttrici, però, ci sono i Balcani, e rispetto al problema balcanico la politica anglosassone procede in modo da scartare del tutto questa seconda direttrice, e favorire, per lo sviluppo economico, soltanto la rotta marittima.

Questo, per chi vuol vedere, può spiegare tutte le strategie che si sono susseguite dal 1900 fino alle guerre balcaniche che hanno preceduto di poco la cosiddetta guerra mondiale, e perfino il trattamento riservato all’Europa Centrale dall’Occidente in tutte le questioni che sono sorte dall’inizio del secolo, se non già da prima, fino al 1914.

C’è anche qualcos’altro: i rapporti tra Inghilterra e Russia. Ovviamente la rotta via mare (intorno all’Africa) non interessa la Russia, ma è la Russia a interessarsi all’altra direttrice, quella di terra. Come abbiamo visto, l’Inghilterra ha progetti speciali per la Russia, cioè l’esperimento socialista, e deve quindi impostare tutta la sua politica in modo che da un lato non si sviluppi la linea economica per via di terra, e dall’altro che la Russia si trovi tarpata e isolata, e possa offrire il terreno all’esperimento socialista.

Gentili convenuti, in sostanza la situazione del mondo era questa. Tutto ciò che è stato fatto fino al 1914 sullo scacchiere della politica internazionale è stato influenzato da queste tendenze mondiali. Come ho già detto, ci vorrebbero molte ore per entrare nei dettagli, ma ho voluto almeno farne un accenno.

A fronte di questo fatto ce n’è un altro, che ho messo in evidenza quando, nel 1919, ho scritto il mio Appello al popolo tedesco e al mondo civile: che nell’Europa Centrale ci si è sempre rifiutati di credere che è necessario arrivare a una concezione della politica fondata sui grandiosi impulsi storici. Purtroppo all’interno del continente europeo non c’è stato qualcuno disposto a considerare le misure da prendere nell’ottica di simili tendenze lungimiranti, con le quali si ha a che fare.

Vedete, la gente viene poi a dirti: devi fare una politica pratica! L’uomo politico deve essere pratico! Consentitemi di spiegarvi con un esempio che cosa significa veramente ‘pratica’ per queste persone.

Molti dicono: quello che fanno quelli là di Stoccarda, con la loro «triarticolazione», col loro Kommender Tag (Der Kommende Tag era una Società fondata dal gruppo di antroposofi intorno a Steiner nel 1920 in Svizzera, che raccoglieva più imprese gestite secondo i principi della triarticolazione, [Ndt]) eccetera, sono tutte sciocchezze. Sono tutti idealisti inetti alla pratica.

Ora, gentili convenuti, immaginate questa gente e pensate come potrebbe essere se, diciamo così, o almeno speriamolo, avremo avuto fortuna, e avremo compiuto e costruito qualcosa che ha il suo posto nel mondo. Allora vedrete che queste stesse persone verranno da noi e vorranno aggregarsi a noi, e sfruttare le loro «conoscenze pratiche» per diffondere quello che prima consideravano roba da idealisti. Allora sì che si realizzerebbe qualcosa di pratico! Per la gente questa è l’unica cosa che conta.

Ma si deve sempre guardare all’origine delle cose, e spesso ciò che gli inetti pratici chiamano non pratico è proprio quello che manca alla base delle loro prassi. Semplicemente, queste persone non vogliono calarsi dentro i fatti, e sono perciò inadeguate a riconoscere quello che accade in realtà.

I politici dell’Europa Centrale si sono attenuti a una prassi più o meno simile; non si può qualificarla diversamente, e dobbiamo riconoscere che, per l’Europa Centrale, arrivare a questo annullamento, al punto zero di questa politica, quando le cose precipitavano verso il momento decisivo, è stata una tragedia.

Si tratta quindi di comprendere che è assolutamente necessario per noi, nell’Europa Centrale, riuscire a innalzarci a un punto di vista politico di ampio respiro, fondato sulla realtà dello spirito. Senza di questo non possiamo uscire dal caos del presente. Se non ci decidiamo a farlo, continuerà ad accadere sempre e soltanto quello che stiamo vedendo, quello che sta accadendo oggi.

Gentili convenuti, sono dell’idea che se continueremo a basarci su queste vecchie impostazioni, come facciamo ora, non riusciremo affatto a risolvere i problemi politici attuali, che sono così intricati e confusi.

E anche se i politici dell’Intesa si fossero riuniti – vi dico la mia sincera opinione – e avessero escogitato, guidati da Lloyd George, quelle condizioni di pace che hanno presentato al mondo prima della conferenza di Londra, ma per un caso qualsiasi, avessero perso le carte con sopra le loro condizioni di pace e le avessero addirittura dimenticate – naturalmente è un’ipotesi assurda, ma la faccio per mostrarvi un fatto. Mettiamo che Simons avesse ricevuto per posta queste carte, e avesse posto le stesse condizioni, scritte con le medesime parole, come se fossero richieste della Germania: sono convinto che sarebbero state respinte con la stessa indignazione con cui sono state respinte le vere proposte di Simons alla conferenza di Londra. Non si tratta infatti di problemi senza soluzione, ma del modo in cui li si rigira a parole, mostrandoli in una prospettiva da cui sembrano irrisolvibili. Questo dev’essere assolutamente detto a chi cerca la verità in questo campo.

Scendiamo adesso per così dire di un piano, verso gli avvenimenti puramente fisici.

Sapete che l’inizio esteriore della guerra si è avuto con l’ultimatum alla Serbia. Delle sue cause e di tutti gli avvenimenti che lo hanno preceduto ho già parlato spesso, e voi potete facilmente informarvi, così oggi ne parlerò per sommi capi. Dall’ultimatum austriaco alla Serbia è iniziato tutto il ciclo, tutta la concatenzione degli imbrogli.

Ebbene, chi conosce la politica austriaca, e soprattutto come si è svolta nella seconda metà del diciannovesimo secolo, sa che questo ultimatum dell’Austria alla Serbia è stato sì un azzardo bellico, ma in seguito al tipo di politica che era stata condotta, era diventato una necessità storica.

Non si può dire altro che questo: la politica austriaca si svolgeva su un territorio su cui, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, era semplicemente impossibile continuare a far pasticci adottando i vecchi principi di governo. Questa espressione non l’ho inventata io, ma l’ha detta in Parlamento il Conte Taaffe in persona – spesso in Austria il suo nome viene scritto così: Ta-Affe (Affe in tedesco vuol dire scimmia, [NdT]). Egli ha detto: «Non possiamo far altro che continuare a far pasticci.»

In Austria, invece, proprio per via della sua complessa situazione, era indispensabile arrivare a una chiara risposta a questa domanda: in uno Stato così composito, in cui nelle questioni nazionali si riverberava l’effetto della vita culturale delle diverse nazionalità, come avrebbero dovuto essere studiate queste questioni? Questo è un problema che la politica austriaca in realtà non si è mai neanche posta; tanto meno poi lo ha studiato.

E se guardo l’insieme dei fatti con l’intenzione precisa di valutarli, e non di raggrupparli secondo propensioni personali, né di estrapolarli dal contesto storico esteriore, i fatti avvenuti molto prima dell’ultimatum alla Serbia mi appaiono ancora più decisivi del risultato finale in cui sono culminati, e cioè l’uccisione dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando. Guardo al periodo che va dall’autunno del 1911 fino al 1912, quando nel parlamento austriaco si svolsero dibattiti sulle condizioni economiche del Paese, seguite con attenzione anche dalla gente comune.

Furono chiuse molte fabbriche perché la politica austriaca si trovava alle strette e cercava invano nuovi mercati, ma essendo incompetente in materia, non riuscì a trovarli. Di conseguenza nel 1912 molte imprese chiusero e, per di più, i prezzi aumentarono enormemente. A Vienna e in altre zone dell’Austria ci furono tumulti contro il carovita e nei dibattiti su questo tema, in cui nel Parlamento il deputato Adler ebbe tanta parte, si giunse al punto che, dalla tribuna, furono sparati cinque colpi all’indirizzo del Ministro della Giustizia.

Era il segnale che in Austria non si poteva più andare avanti con il vecchio sistema economico, che non era possibile tenere in vita l’economia in quel modo. Cosa disse allora il ministro Gautsch nel suo discorso? Disse che si doveva adoperare la massima energia – vale a dire applicare le vecchie regole dell’amministrazione austriaca –, per soffocare l’agitazione contro il carovita. Questo vi dimostra quale fosse lo stato d’animo dei governanti.

La vita culturale si manifestava nelle lotte tra nazionalità. La vita economica si era infilata in un vicolo cieco – sono fatti che potete studiare in tutti i dettagli –, ma nessuno aveva cuore e senno per capire che era necessario studiare le condizioni a venire della vita culturale e dell’economia, accantonando le vecchie idee sullo Stato quali si manifestavano proprio in Austria.

In Austria si era presentata la necessità di intraprendere lo studio della storia mondiale in modo da giungere alla triarticolazione dell’organismo sociale, come risulta semplicemente dai fatti descritti. Nessuno però volle farlo, e poiché nessuno volle pensarci, le cose andarono come sappiamo.

Vedete, basta far luce con pochi cenni sugli avvenimenti verificatisi in Austria all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, e negli anni che seguirono, sulla scia del Congresso di Berlino, per vedere quali forze fossero in gioco. All’inizio degli anni ’80, anzi già da prima, la situazione era arrivata a tal punto che il deputato polacco Otto Hausner pronunciò pubblicamente, in Parlamento, queste parole: «Se in Austria continueremo a lavorare con questo tipo di politica, fra tre anni non avremo più alcun Parlamento, ma qualcosa di totalmente diverso». Intendeva il caos.

Certo, in questo genere di discussioni si tende a esagerare, si usano iperbole. Però la profezia di Otto Hausner, anche se non nei tre anni immediatamente successivi, si avverò a distanza di qualche decennio.

E potrei fare innumerevoli citazioni tratte proprio dai dibattiti parlamentari austriaci, per mostrarvi come in Austria anche nel settore agricolo stessero nascendo problemi terribili.

Ricordo molto bene che qualche politico, per giustificare la costruzione della ferrovia dell’Arlberg, affermò che quest’opera si era resa necessaria perché era chiaro che l’agricoltura austriaca non sarebbe sopravvissuta se dall’Occidente avesse proseguito, inalterata, l’ingente esportazione di prodotti agricoli. Ovviamente il problema non era stato affrontato nel modo giusto, ma la previsione era azzeccata.

Se ricordassi i fatti uno ad uno – se ne potrebbero citare centinaia –, vedreste come ormai, nel 1914, l’Austria fosse giunta al punto di dover dire: o noi rinunciamo come Stato, perché non possiamo più andare avanti così, e ammettiamo di essere perduti; oppure tentiamo un azzardo che dia prestigio alle classi dominanti, e ci permetta di uscire da questo vicolo cieco.

Chi pensava che l’Austria avrebbe dovuto continuare a esistere – e vorrei sapere come un uomo di Stato austriaco avrebbe potuto rimanere tale, se non fosse stato di quest’avviso – non poteva far altro che accettare un’idea del genere. Non si poteva far altro che tentare una mossa azzardata. Magari, da altri punti di vista, potrebbe sembrare che ci fosse un’altra soluzione, o altre ancora; queste cose vanno però comprese nel contesto delle forze storiche che agivano allora.

Questo dunque era il punto di partenza in Austria. Consideriamo ora il punto di partenza in un altro luogo: veniamo a Berlino. Per darvi un’idea di quello che succedeva a Berlino, inizierò col raccontarvi un fatto, un fatto puro e semplice, in modo del tutto obiettivo – vi prego di non volermene, se anche in questo caso mi atterrò all’obiettività più stringente. Nel 1905 fu nominato Capo di Stato Maggiore l’allora generale von Moltke (che poco dopo ottenne il grado superiore di Generaloberst), l’uomo sulle cui spalle nel 1914, a Berlino, sarebbe ricaduto il peso della decisione fra la pace e la guerra. Al momento della nomina si svolse la scena che sto per descrivervi – cercherò di essere breve. Il Generale von Moltke era convinto di non poter accettare il gravoso incarico di Capo di Stato Maggiore, se prima non ne avesse discusso le condizioni con il Kaiser. La discussione si svolse all’incirca così. Fino a quel momento, per via dei rapporti gerarchici fra i generali e il Kaiser (che era il Comandante Supremo delle Forze Armate), durante le grandi manovre il Kaiser comandava sempre uno degli schieramenti – l’avrete senz’altro già letto da qualche parte – e saprete anche che vinceva sempre.

Nel 1905 il generale von Moltke pensò che non avrebbe di certo potuto accettare la responsabilità della nomina a Capo di Stato Maggiore a quelle condizioni. La situazione poteva farsi seria: che piega avrebbe preso una guerra, se si dovevano condurre le manovre in modo tale da far vincere per forza il Kaiser, in qualità di Comandante Supremo?

Così il generale von Moltke decise di esporre il suo timore al Kaiser senza mezzi termini, in modo aperto e onesto. Questi si stupì moltissimo di sentirsi dire dall’uomo che avrebbe dovuto divenire il suo Comandante di Stato Maggiore che non poteva accettare l’incarico, giacché lui, il Kaiser, non avrebbe saputo condurre una guerra se la situazione si fosse fatta critica. Von Moltke gli disse che bisognava prepararsi in modo che tutto funzionasse anche in un’evenienza simile, e che avrebbe accettato la nomina a Comandante di Stato Maggiore solo se il Kaiser avesse rinunciato al comando di una parte delle truppe durante le manovre.

Il Kaiser chiese: «Ma come? Allora io non ho vinto per davvero? Era tutto combinato?» Egli non sapeva affatto che il suo entourage aveva aggiustato le cose! E solo quando gli ebbero aperto gli occhi, capì che non si poteva continuare così. Anzi, dobbiamo riconoscere che accettò le condizioni di von Moltke con notevole larghezza di vedute – questo non possiamo tacerlo.

Gentili convenuti, vi ho esposto questi fatti per permettervi di formarvi un’opinione – consentitemi di aggiungere tra parentesi che ho buoni motivi oggi per non colorire queste storie, perché tra i presenti c’è una persona che in ogni momento può controllare se dico la verità. Dunque, dopo avervi raccontato tutto ciò, vi prego di considerare seriamente dov’è l’errore: se non è veramente strano che intorno al Comandante Supremo dell’esercito ci fossero dei personaggi con il loro seguito che, invece di parlare come il generale von Moltke nel 1905, anche dopo aver ricevuto un incarico agirono in modo diverso.

Oggi non è necessario dare a intendere al mondo che bisogna aspettare, per poter appurare i fatti obiettivamente. Si tratta solo di avere la ferma volontà di indicarli, questi fatti. E non c’è nemmeno bisogno di scervellarsi su una seduta del Consiglio della Corona, di cui si sa per certo che il generale von Moltke non fu informato; dalla fine di giugno del 1914 fino a pochi giorni prima dello scoppio della guerra si trovava infatti a Karlsbad per delle cure.

È importante ricordarlo perché, quando il discorso cade sui guerrafondai tedeschi, gentili convenuti, dobbiamo certamente dire che in Germania questi guerrafondai ci sono stati. Se poi si affrontasse il problema specifico di chi ha fomentato la guerra, ci si arenerebbe, se si volessero assolvere certi personaggi che ho menzionato prima.

E in fin dei conti, come no, anche a Nikita, il re del Montenegro, si possono attribuire pesanti responsabilità per lo scoppio della guerra. Ce lo dimostra il fatto che già il 22 luglio del 1914, durante una festa sfarzosa a Pietroburgo, alla presenza del Presidente francese Poincaré*, le due figlie di Nikita, queste donne diaboliche – perdonatemi l’espressione –, dissero davanti all’ambasciatore francese: «Viviamo un momento davvero storico! È appena arrivato un dispaccio di nostro padre, che dice che nei prossimi giorni scoppierà la guerra. Che gran bella cosa! Germania e Austria spariranno, e noi ci stringeremo la mano a Berlino.» Lo stesso ambasciatore si è concesso il vezzo di raccontare l’episodio nelle sue memorie, scritte con loquacità senile. Queste cose sono state dette dalle figlie del re Nikita, Anastasia e Militza, all’ambasciatore francese a Pietroburgo il 22 luglio – vi prego di far bene attenzione alla data. Anche questo è un fatto che va tenuto presente.

Ora direi che non c’è bisogno di preoccuparci di tutti gli altri particolari meno importanti. È invece significativo che a Berlino, fino al 31 luglio 1914, la situazione fosse precipitata in modo tale che tutte le decisioni riguardanti la guerra e la pace erano di fatto ricadute sulle spalle del Capo di Stato Maggiore, il generale von Moltke. Naturalmente egli non poteva giudicare la situazione che da un punto di vista prettamente militare. Di questo bisogna tenerne conto.

Infatti, per giudicare la situazione è necessario per prima cosa sapere con esattezza quello che è accaduto a Berlino, quasi ora per ora, dalle quattro del pomeriggio circa fino alle undici di sera. Sono ore fatidiche, in cui si è consumata un’immane tragedia per la storia del mondo.

Questa tragedia è iniziata così: il Capo di Stato Maggiore, basandosi sugli avvenimenti accaduti fino a quel momento, o almeno su quanto se ne poteva sapere a Berlino, non poté far altro che seguire e attuare il piano dello Stato Maggiore, che era stato preparato da anni nel caso si fosse verificato ciò che, alla fine, era da prevedere, ma che si è presentato come un fatto inevitabile.

Le diverse alleanze erano congegnate in modo tale che, riflettendo sulla situazione europea, non si poteva far altro che dire: se il caos dei Balcani si estenderà fino all’Austria, senz’altro si intrometterà anche la Russia. La Russia è alleata della Francia e dell’Inghilterra, quindi anche loro dovranno partecipare in un qualche modo.

Poi le cose procedono automaticamente, non c’è dubbio: Germania e Austria devono coalizzarsi. E con l’Italia era stato stretto un patto poco tempo prima – mediante un accordo dettagliato, che stabiliva addirittura il numero delle divisioni da schierare –, che in caso di guerra vincolava l’Italia a intervenire.

Questo era quanto poteva sapere un uomo che, nel valutare la situazione mondiale, si basasse soltanto su un paio di concetti. Erano le due massime che ispiravano il Signor von Molkte. Primo: se si arriva a una guerra, questa sarà terribile, accadranno cose atroci. E chi conosceva l’animo nobile del generale von Moltke sapeva che un’anima simile non si sarebbe gettata a cuor leggero in un’impresa che giudicava oltremodo orribile. Ma l’altro concetto era uno sconfinato senso del dovere e della responsabilità, che non avrebbe potuto produrre effetti diversi da quelli che poi ha prodotto.

Gentili convenuti! In Germania solo la politica avrebbe potuto impedire quanto invece accadde, e voi stessi ve ne renderete conto quando vi avrò raccontato anche i fatti che seguono.

Era il pomeriggio del sabato; si avvicinava il momento decisivo. Il Capo di Stato Maggiore von Moltke, dopo le quattro, incontrò il Kaiser, Bethmann-Hollweg* e una serie di altri personaggi che sembravano piuttosto euforici. Dall’Inghilterra era appena arrivato un dispaccio: credo però che non sia stato letto accuratamente, altrimenti i politici tedeschi non lo avrebbero interpretato in modo tanto ottimista, come se annunciasse la possibilità di un accordo dell’ultima ora con l’Inghilterra.

Nessuno a Berlino aveva la più pallida idea di quanto fosse incrollabile la fede degli inglesi nella loro missione. Nei loro confronti si era invece sempre praticata la politica dello struzzo. Una vera tragedia. E ora, da questo telegramma, si credette a cuor leggero di capire che le cose avrebbero potuto prendere un’altra piega, così il Kaiser non firmò l’ordine di mobilitazione generale.

Faccio dunque notare che la sera del 31 luglio non fu firmato l’ordine di mobilitazione generale, benché il Capo di Stato Maggiore, in base alla sua esperienza militare, pensasse che non si doveva tener conto di quel telegramma, e che invece il piano di guerra doveva essere immediatamente eseguito. Invece, in presenza di von Moltke, l’ufficiale di giornata ricevette l’ordine di comunicare per telefono che le truppe dovevano tenersi a distanza dal confine occidentale, e il Kaiser disse: ora non c’è più bisogno di invadere il Belgio.

Quanto vi sto dicendo è scritto nelle memorie dello stesso generale von Moltke, redatte dopo che fu sollevato dall’incarico in circostanze così strane. Queste memorie, col consenso della signora von Molte, avrebbero dovuto essere pubblicate nel maggio 1919, immediatamente prima della firma del Diktat di Versailles, nel momento decisivo in cui la Germania avrebbe potuto dire al mondo la verità.

Chi avesse letto ciò che doveva essere pubblicato allora, e che è uscito dalla penna dello stesso von Moltke, si sarebbe immediatamente persuaso che conteneva parole che recano il sigillo dell’onestà interiore e dell’integrità, parole che alla vigilia del diktat di Versailles avrebbero fatto una grande impressione sul mondo.

Ora il testo era già stampato il martedì pomeriggio, e avrebbe dovuto uscire il mercoledì. Venne da me un generale tedesco che, sulla scorta di una cartella piena di documenti, cercò di convincermi che tre punti di queste memorie erano inesatti. Dovetti dire al generale che avevo lavorato per molto tempo come filologo, e i fascicoli pieni di atti non mi impressionano finché non li ho valutati filologicamente. Non basta infatti sapere quello che contengono, ma anche quello che non contengono: chi compie una ricerca storica, cerca non solo quello che c’è nelle carte, ma anche quello che manca.

Dovetti però anche aggiungere: lei ha preso parte a questi eventi, e naturalmente il pubblico ritiene che lei li conosca con precisione. Se io faccio uscire questo libricino con le memorie di von Moltke, lei giurerebbe che questi tre punti non sono esatti? Il generale mi rispose: sì!

Io sono pienamente convinto che questi tre punti dicono la verità, perché se ne può constatare la giustezza anche da un punto di vista psicologico. In quel momento però la diffusione delle memorie sarebbe stata del tutto inutile: se qualcuno avesse detto sotto giuramento che questi tre punti non erano giusti, sarebbero iniziate le solite angherie e il libricino sarebbe stato sequestrato. Viviamo in un mondo che non considera ciò che è giusto o ciò che è ingiusto, ma che decide in base al potere.

So di essermi attirato forti ostilità con questo libricino, in particolare per ciò che ho scritto a pagina 5; ma l’ho voluto scrivere per mettere nella giusta luce la situazione che c’era allora. Ho scritto:

«Come in Germania tutto dipendesse dalle decisioni del vertice delle Forze Armate, nel periodo che precedette lo scoppio della guerra, lo rivela l’infelice aggressione del Belgio: un’azione ‹militarmente necessaria› e politicamente assurda».[67]

Chi ha scritto queste righe chiese al generale von Moltke, nel novembre del 1914: «Che cosa pensa, il Kaiser, di questa aggressione?»

La risposta fu: «Nei giorni che precedettero lo scoppio della guerra, il Kaiser non sapeva ancora nulla. Infatti, conoscendo il suo carattere, si temeva che avrebbe spifferato questa storia ai quattro venti. E questo non doveva assolutamente accadere, perché l’aggressione sarebbe riuscita solo cogliendo l’avversario impreparato». Io chiesi: «Il cancelliere lo sapeva?». La risposta fu: «Sì, lo sapeva.»

In questo modo si doveva far politica nell’Europa Centrale, ci si doveva premunire contro la lingua lunga del Kaiser! Vi chiedo: non è forse una tragedia immane, dover fare politica così?

In base a tutto ciò si può dare la prova certa che l’affermazione di Tirpitz – un personaggio sgradevole –, su Bethmann-Hollweg [il cancelliere tedesco dell’epoca, NdT] era giusta: disse cioè che a costui sarebbero venuti a tremare i ginocchi, e che, anche esteriormente, la sua fisionomia esprimeva quanto fosse nullo politicamente. Tirpitz ripeté la stessa cosa anche all’ambasciatore inglese, sottolineando che, se l’Inghilterra avesse attaccato, la politica del cancelliere si sarebbe rivelata per quel che era: un castello di carte.

Lo era davvero – crollò come un castello di carte –, e nelle sue memorie il Capo di Stato Maggiore von Moltke scrisse di quella sera:

«L’atmosfera diventava sempre più incandescente, e io mi ritrovai completamente solo».[68]

Gentili convenuti! Il comando militare era completamente solo, la politica ridotta a uno zero.

I tedeschi si ritrovarono in queste circostanze per non aver voluto elevarsi a quelle visioni di ampio respiro per le quali avevano una speciale vocazione, come dimostrano le grandi epoche dello sviluppo culturale tedesco, a cui, però, alla fine del secolo diciannovesimo e all’inizio del ventesimo, non si voleva guardare.

Gentili convenuti, l’animo del Capo di Stato Maggiore si sentiva oppresso da questa situazione, gravida di disgrazie. E quando, a seguito delle istruzioni ricevute per telefono, gli si presentò un ufficiale per fargli firmare l’ordine di trattenere le truppe alla frontiera franco-belga, il generale spezzò la penna sul tavolo, esclamando che lui non avrebbe mai firmato un ordine simile, perché avrebbe solo disorientato le truppe.

E fu in un questo doloroso stato d’animo, che von Moltke, sull’orlo della disperazione, fu mandato a chiamare. Erano ormai passate le dieci di sera, e dall’Inghilterra era arrivato un nuovo telegramma – preferisco non ricordare i dettagli – e fu allora che il Kaiser pronunciò le parole: «Ora può fare quello che vuole!»

Vedete, bisogna comunque entrare in certi dettagli, e io, gentili convenuti, vi ho fornito solo alcuni tratti essenziali di quanto è accaduto nel Continente. Ma adesso voglio descrivere anche l’evento corrispondente, quel che accadde dall’altra parte, in Inghilterra. Un giorno verrà confermato, e, d’altro canto, posso dire che non ve lo racconto a cuor leggero.

Un giorno si saprà con certezza che, mentre a Berlino accadeva quello che vi ho appena raccontato, nello stesso momento i due, Asquith e Grey, si dissero: «Ma che sta succedendo? Per tutto il tempo abbiamo fatto politica per l’Inghilterra a occhi bendati!». Intendevano dire che la politica inglese era stata fatta da altri, mentre loro avevano gli occhi bendati. E dissero: «Ora ci hanno tolto la benda » – era sabato sera – «ormai non possiamo che entrare in guerra.» Questa è l’altra faccia della medaglia, questo è avvenuto al di là della Manica.

I fatti che ho descritto vanno presi come esempi, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri ancora. Ma vi prego di ricordare che per via del poco tempo a mia disposizione, mi limito a tratteggiare un certo clima, per presentarvi qualcosa che getti almeno un po’ di luce su quanto è accaduto. E vi prego anche, dopo aver ascoltato tutto questo, di leggere in base a queste stesse premesse ciò che ho scritto nei miei Pensieri in tempo di guerra che, dopo averci ben riflettuto, ho dedicato «ai tedeschi e a chi crede di non doverli odiare».

Ogni dettaglio di quel testo è ben ponderato. Vi prego di riflettere su quanto ho scritto da questo punto di vista: che il nocciolo della questione non è ciò che abitualmente si definisce colpa o non colpa in senso morale, si tratta invece di portare la discussione all’altezza del divenire storico, dove si è svolta una eccezionale tragedia, qualcosa per cui si deve incominciare a parlare di necessità storiche, qualcosa su cui non si dovrebbero far chiacchiere con giudizi come quelli a cui ho accennato oggi.

La situazione è molto più grave di quanto si creda nel mondo, sia da una parte che dall’altra, però queste cose devono assolutamente essere portate a conoscenza di tutti, affinché, a partire da esse, si trovi una via che dalla confusione porti all’ordine.

Ma ai nostri giorni, gentili convenuti, non c’è veramente alcuna possibilità: tutto quello che si fa in questo senso viene sempre deformato, denigrato, non c’è verso di riuscire a mostrarlo al mondo nel modo giusto.

Quello che vi ho detto oggi sul generale von Moltke ci permette di giudicare l’uomo in un momento decisivo. Ma ci sono altre persone di cui, come sapete, si dice abbiano prestato servizio nello Stato Maggiore e che hanno il coraggio di raccontare le storie più infamanti sul generale von Moltke. Tra le altre raccontano l’assurda menzogna secondo cui in Lussemburgo, prima della battaglia della Marna, si sarebbero tenute conferenze antroposofiche, per partecipare alle quali von Moltke avrebbe trascurato di compiere il proprio dovere.

Se certa gente arriva a dire cose di questo genere, allora, gentili convenuti, possiamo capire in quali condizioni morali ci ritroviamo oggi. E in tali condizioni è difficile spianare la strada alla verità. Per riuscirci avremmo bisogno di molte, moltissime forze.

Ora che vi ho spiegato le premesse, voglio leggervi una frase dalle Memorie di von Moltke, che vi mostrerà cosa si muoveva nell’anima di quest’uomo: quale fosse la sua opinione sulla necessità di una guerra, e quale fosse il suo senso di responsabilità. Non si tratta infatti, di costruire un brutale concetto di colpa, ma di calarsi in ciò che viveva nelle anime a quel tempo.

È una frase molto semplice, quella che Moltke ha scritto; una frase che è stata pronunciata spesso. C’è però una bella differenza, se a pronunciarla è una persona qualunque, oppure un uomo su cui gravava la decisione di iniziare una guerra. Egli scrisse:

«La Germania non ha provocato la guerra e non è entrata in guerra per smania di conquiste o per intenzioni aggressive verso i suoi vicini. La guerra le è stata imposta dai suoi avversari e noi lottiamo per la nostra sopravvivenza come nazione, per la sopravvivenza del nostro popolo, per la continuazione della nostra vita nazionale».[69]

Non si trova la verità se si esaminano i fatti partendo da un punto qualsiasi, si deve partire dal punto in cui le realtà, i fatti sono in gioco. E quando si può provare che un elemento essenziale ha agito nell’anima di un uomo, in un’anima con una tale coscienza, allora anche questo va considerato come parte dei dati di fatto che hanno contribuito a creare una determinata situazione.

Se si vuole dare un giudizio, bisogna essenzialmente esaminare le azioni delle quaranta, o al massimo cinquanta personalità, che hanno avuto una parte nello scatenare questa orribile catastrofe. Chi vuole farsi un’opinione su questi avvenimenti, a partire dalla conoscenza dei fatti, sa che effettivamente erano tutti piuttosto ignari – tutti, tranne le quaranta o cinquanta persone che hanno provocato lo scoppio della guerra, e che dispiegarono la loro attività nella galassia dei rapporti tra Stati europei.

Durante la guerra ho avuto occasione di parlare con molte persone, che erano in grado di giudicare gli eventi, e ho sempre parlato senza peli sulla lingua. Per esempio, a un personaggio vicino ai capi di uno Stato neutrale, ho detto: possiamo dire che è cosa nota, che in questi anni la catastrofe della guerra sia stata provocata da circa quaranta o cinquanta personaggi, che si sono mossi a livello internazionale. Fra questi, gentili convenuti, c’era anche un certo numero, non tanto esiguo, di donne – le donne non sono solo nella società antroposofica.

Sarebbe necessario spiccare il volo e conquistare l’altezza delle ampie prospettive, per giudicare veramente questa situazione. Invece si fa un gran parlare di questi eventi che hanno sconvolto il mondo rifacendosi a superficiali Libri bianchi e Libri neri. E così, per chi sa che i fatti sono ben diversi da come li conosce la maggioranza delle persone, è oltremodo difficile far valere queste conoscenze in quegli ambienti dove, a partire dal 1914, si sta a giudicare quanto è accaduto.

Ne ho fatto l’esperienza già ai tempi in cui, in ogni parte della Svizzera, mi buttavano in faccia il J’accuse[70] e io – voi sapete quanto certe situazioni fossero pericolose – e io mi dicevo, e lo dicevo anche alla gente, che non potevo dire nient’altro che la verità, sebbene la verità fosse spesso la cosa meno capita. Leggete – dicevo – in un libro del genere, non le sofisticherie da giurista, leggete quello che vi è contenuto, l’intera struttura, l’intero stile del libro, e direte: questa è letteratura politica da scale di servizio! L’ho detto a persone che appartenevano a Stati neutrali e non neutrali, l’ho dovuto ripetere molte e molte volte.

Naturalmente non intendo che in questo J’accuse sia tutto sbagliato; però parte da un punto di vista assolutamente inadatto a giudicare la tragica situazione storica in cui il mondo si trovava nel 1914. Bisogna risalire ai retroscena, se si deve parlare, anche solo in parte, della questione della colpa.

Sì, la questione della colpa, gentili convenuti, ci deve insegnare anche qualcos’altro.

Nell’autunno o inverno del 1916, la Germania fece l’infelice Offerta di pace, a cui seguì la mossa surreale dei 14 punti di Woodrow Wilson. Subito dopo ho preso contatti con personaggi importanti, e non ho mai dovuto insistere, poiché mi venivano incontro spontaneamente ben più che a metà strada. Desideravo esporre un pensiero, che a molti poteva sembrare paradossale, ossia che in contrapposizione a questi 14 punti di Wilson, che pur essendo del tutto avulsi dalla realtà erano in grado di mobilitare una gran quantità di uomini, navi e cannoni, si potesse presentare al mondo l’idea della triarticolazione dell’organismo sociale.

E ho constatato che diverse persone capivano bene la necessità di una trasformazione del genere, ma che nessuno, proprio nessuno, aveva in realtà il coraggio di fare qualcosa in questa direzione.

Vedo che oggi è di nuovo qui presente la persona che assisté al mio colloquio con Kühlmann: non posso quindi raccontarvi frottole, queste cose mi sono successe davvero.

Non vi racconterei comunque niente di falso, dovrei vergognarmi addirittura davanti a me stesso, perché si sa esattamente come è andata questa storia.

Devo ancora dirvi, per esempio, che fin dal gennaio del 1918 ritenevo l’offensiva progettata per la primavera una completa assurdità. Durante un viaggio da Dornach a Berlino – che feci perché si sapeva che all’avvicinarsi del momento decisivo sarebbe stata chiamata alla guida degli affari politici una certa persona – mi trovai nella condizione di parlare proprio con questa persona della situazione che si è poi verificata in seguito, nel novembre del 1918.

Avendo trovato da parte sua una certa comprensione per la triarticolazione dell’organismo sociale, andai a Berlino, per parlare con un personaggio importante. Fin dal gennaio del 1918 i bene informati sapevano dell’offensiva che si stava preparando per la primavera, ma di questo non si poteva parlare. Io avrei dovuto parlare con un alto ufficiale che era molto vicino al generale Ludendorff.

Il colloquio si svolse all’incirca così. Io dissi: «Non mi voglio esporre al rischio di essere criticato perché parlo di strategie militari, voglio partire da un altro punto, in cui il mio dilettantismo in cose militari non entra in gioco». Dissi che ritenevo l’offensiva di primavera un’assurdità, anche se con questa offensiva Ludendorff avesse raggiunto tutti gli obbiettivi immaginabili. E spiegai che la pensavo così per tre motivi.

Il mio interlocutore divenne molto agitato, ed esclamò: «Ma cosa vuole? Kühlmann aveva il vostro elaborato sulla triarticolazione nella borsa e se l’è portato dietro a Brest-Litowsk! La politica ci fa dei bei servizi. Da noi la politica non conta nulla. Noi militari non possiamo far nient’altro che combattere, combattere e combattere». Nel 1914 il Capo di Stato Maggiore si era ritrovato in una situazione tale da dover descrivere così la situazione di quella famosa sera: «L’atmosfera divenne sempre più incandescente, e io mi ritrovai completamente solo.» E sull’atmosfera delle ore che seguirono, tra le dieci e le undici della sera, scrisse:

«Il Kaiser era molto agitato e mi disse: ‹Adesso Lei può fare quello che vuole› ».[71]

Così nel 1918 c’era chi poteva affermare: è inutile rivolgersi ai politici, la politica è sprofondata nel nulla. Noi militari non possiamo far nient’altro che combattere, combattere e combattere.

Miei cari ascoltatori! Nulla era cambiato allora, e nulla è cambiato oggi. Di questo posso fornirvi la prova, anche se soggettiva e in negativo. Dalla medesima sede e con la medesima insipienza con cui ha parlato Woodrow Wilson – insipienza che è stata comprovata dalla figura che Wilson ha fatto a Versailles – ha parlato il presidente Harding*. Il discorso di Harding è confusissimo, del tutto privo d’ogni senso di realtà, e a sua volta non ripropone altro che vecchie frasi fatte. Allora c’erano da prendere decisioni politiche, oggi si tratta di prenderle nell’economia. Allora come oggi non mi pare proprio che qualcuno si occupi delle nubi che si addensano all’orizzonte.

È quasi impossibile portare le persone a formarsi un giudizio! Che allora sia stato Wilson a mostrare a Versailles la sua confusione, oppure che oggi sia qualcuno di noi a dire le cose con la medesima mentalità, non è questo che conta. Quello che conta è solo tenere gli occhi aperti e avere senso della realtà.

In tal caso, gentili convenuti, si presterebbe attenzione anche a certi fatti: per chiunque abbia una sensibilità politica è inaudito che lo statista esemplare del nostro tempo, quel Lloyd George, abbia detto di recente: alla Germania non si può attribuire la colpa morale dello scoppio della guerra, nel vecchio senso dell'espressione. La gente ci è scivolata dentro a causa della propria stupidità.

Così ha detto qualche settimana fa e voi sapete che cosa ha detto a Simons, a Londra. Da ciò potete dedurre quanta poca verità contengano i discorsi della gente. E il mondo ha mai voglia di guardare a queste cose? Gli verrà solo se svilupperà in sé una sensibilità per punti di vista universali.

Quanta parte hanno avuto, queste ampie vedute, nella catastrofe della guerra! E la nostra disgrazia è stata che nessuno arrivasse a comprenderle. Dobbiamo fare in modo che i punti di vista universali, da cui dipendono le cose, oggi anche nella Mitteleuropa comincino a giocare un ruolo nelle decisioni, gentili signore e signori.

Non ci sarà alcun miglioramento, finché a decretare cosa è vero saranno coloro che pretendono, in maniera alquanto singolare, di avere l’esclusiva su ciò che appartiene alla Germania; finché questa gente continuerà a chiamarci traditori della cultura tedesca – sebbene quanto affermiamo, se venisse capito davvero, sia l’unica cosa veramente in grado di dare all’autentica cultura tedesca il posto che le spetta – non cambierà nulla. Devono riunirsi le persone che hanno una volontà diversa, che cercano la verità sopra ogni altra cosa. Certo, anche in Germania ci sono stati guerrafondai, ma tutto quello che hanno fatto non ha avuto alcun peso nel momento decisivo.

Significativo è stato invece ciò che ho scritto nell’ultimo capitolo del mio libro I punti essenziali della questione sociale.[72] Ho scritto che, avendo smarrito i punti di vista universali, abbiamo raggiunto il punto zero dell’efficacia della politica. Nella cultura tedesca ci risolleveremo solo quando ci innalzeremo a questa vastità di vedute, perché chi vive l’autentica cultura tedesca non solamente a parole, ma con cuore palpitante, sa che essa significa proprio: divenire tutt’uno con i punti di vista universali. Dobbiamo ritrovare la strada verso i punti di vista universali del popolo tedesco.

Gentili convenuti, in fondo vi dico queste cose anche per esperienza. Avrei anche potuto non rispondere a questa domanda.
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mitteleuropeo
view post Posted on 27/8/2014, 17:14




E' per me notevole che in un grosso libro , recentemente uscito, dello storico inglese Clark "I sonnambuli Come l'Europa giunse alla Grande Guerra" quanto detto da Steiner venga puntualmente confermato, da parte di chi Steiner non sa neppure che sia esistito. Cio' vale soprattutto per quello che riguarda la "non colpa" della Germania sulle origine della guerra e su quanto avvenne a Berlino e Londra fra il 31 Luglio ed il ! Agosto. Ancora: Clark conferma,carte alla mano, la gravissima responsabilità francese e russa, insieme all'insipienza austriaca. (Del volta faccia italiota, essendo stato il Bel Paese dapprima alleato degli Imperi Centrali e poi, "dannunzianamente" pronto alla pugnalata alle spalle ed al "cambio di alleato", evento decisivo per le fortuna anglofrancesi, Clark pietosamente tace...).
Abbiamo quindi davanti, 100 anni dopo, il quadro degli eventi che di catastrofe in catastrofe ci hanno portato nell'attuale "tuffo nella barbarie"...e naturalmente,ancor oggi, i cannoni rombano un po' ovunque, dall'Ucraina al Nordafrica, dal Medio Oriente all'Afgabisthan......in onore del messianismo anglofono e dei suoi enomi interessi politici,finanziari,economici, (im)morali...
 
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view post Posted on 10/5/2015, 13:55

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Riporto solo l’inizio e la fine dell'articolo; chi fosse interessato anche all’esposizione delle tesi di Lenin sull’imperialismo potrà leggere il testo integrale direttamente sul sito citato. Enfasi mie.

Lenin e la prima guerra mondiale
di Roberto Sidoli, dell’Associazione Primo Ottobre di amicizia Italia-Cina.
http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scien...-mondiale.html#


Il primo conflitto planetario imperialistico non scoppiò nel luglio/agosto del 1914 per errore umano o pura casualità: come ha giustamente notato David Stevenson nel suo libro “La grande guerra” (p. 43), la tesi della guerra per errore “è oggi insostenibile” anche solo tenendo a mente la distanza temporale di più di un mese creatasi nel 1914 tra il celebre attentato di Sarajevo e lo scoppio effettivo delle ostilità sul suolo europeo.
Non fu certo una guerra divampata a “caldo”…
Inoltre la prima guerra mondiale non si sviluppò certo per assenza o scarsità di processi di globalizzazione, di compenetrazione economica tra le nazioni in conflitto, anzi. Sempre Stevenson, lontano anni-luce da qualunque simpatia comunista e marxista, ha sottolineato un punto fermo ormai assodato dalla storiografia contemporanea notando che “gli anni che precedettero il 1914 conobbero livelli di interdipendenza economica che non si ripeterono più fino a ben oltre la seconda guerra mondiale” e al 1960, visto che proprio nel 1913 le esportazioni/importazioni valevano e pesavano per circa un quarto del prodotto nazionale lordo tedesco, britannico e francese di quel tempo (Stevenson, op. cit., pp. 40-41).
La guerra del 1914-18 invece scoppiò principalmente per lo scontro mortale in atto da tempo tra due gruppi imperialisti contrapposti, quello anglofrancese (e russo) e l’alleanza tedesco-austriaca, a causa del loro conflitto antagonista per il dominio politico-economico, per il controllo dei mercati, delle sfere d’influenza e delle fonti di energia/materie prime su scala europea e mondiale, risultando – come notò giustamente Lenin – una battaglia senza limiti per decidere quale delle due “bande di briganti” dovesse egemonizzare il mondo, il blocco anglofrancese o viceversa quello tedesco.
Grazie anche all’eccellente studio effettuato nel 1993 da Paul Kennedy rispetto all’antagonismo anglo-tedesco nel Ventesimo secolo, persino alcuni storici anticomunisti negli ultimi decenni hanno in parte dovuto prendere atto della validità dell’analisi leninista rispetto alle cause fondamentali del primo macello planetario, focalizzando a modo loro l’attenzione sulla “weltpolitik” condotta tra il 1890 e il 1914 dai circoli dirigenti dell’imperialismo tedesco, con l’imperatore Guglielmo II in testa, in qualità di mandatario politico della frazione politica egemone in quel periodo storico all’interno della borghesia e dell’apparato statale della Germania.
Ad esempio Stevenson, sulla scia di Paul Kennedy, ha posto l’accento sul piano strategico via via elaborato dall’imperialismo tedesco dal 1890 al 1914 e teso a ottenere progressivamente l’egemonia planetaria, focalizzando l’attenzione sulla “nuova iniziativa intrapresa a partire dagli ultimi anni Novanta del XIX secolo, conosciuta come politica mondiale o weltpolitik. La sicurezza continentale ora non bastava più, e Guglielmo II e i suoi consiglieri affermavano con ostentazione il diritto della Germania ad avere voce in capitolo nell’impero ottomano (dove dichiarò di essere il protettore dei musulmani), in Cina (dove la Germania acquisì un diritto sul porto di Tsingtao, nella baia di Chiao Chou) e in Sud Africa (dove Guglielmo II sostenne gli afrikaner contro i tentativi britannici di controllarli, inviando nel 1896 un telegramma di sostegno a Paul Kruger, presidente del Transvaal).
La manifestazione più concreta di weltpolitik furono però le leggi navali del 1898 e 1900. Con l’approvazione del Reichstag, il ministro della Marina di Guglielmo II, Alfred von Tirpitz, iniziò la costruzione di una nuova flotta di corazzate studiate per operazioni nel Mare del Nord”. (D. Stevenson, op. cit., p. 56)
Un’analisi corretta, che tuttavia non prende nel giusto esame la weltpolitik opposta e antagonista che era stata condotta anche dalla borghesia inglese, tesa e finalizzata da secoli al processo di costruzione di un’egemonia britannica su scala planetaria e rispetto a buona parte del mondo extraeuropeo, attraverso l’utilizzo della supremazia incontrastato sul piano marittimo-militare via via a partire dal 1713.
Nel 1890-1914, in altri termini, l’imperialismo inglese risultava da tempo come la principale potenza imperialistica su scala mondiale, a capo di una rete planetaria capillare di oppressione politica e di sfruttamento economico-finanziario che estendeva la sua sinistra tela dal Canada alla Cina e a Hong Kong, passando per buona parte dell’America Latina, dell’Africa e per il controllo dell’intero subcontinente indiano, attuali Pakistan e Sri Lanka inclusi; la weltpolitik inglese, altrettanto feroce e spietata di quella tedesca, nel periodo precedente all’estate del 1914 aveva l’obiettivo strategico di difendere a qualunque costo l’egemonia coloniale e neocoloniale (ad esempio nei confronti del Portogallo e dell’Argentina di quel tempo) britannica contro quello che dal 1898-1900 risultava ormai il suo nemico principale, l’aggressivo e sempre più potente imperialismo tedesco, anche a costo di allearsi a tal fine con un precedente e scomodo “nemico storico” dell’Inghilterra, e cioè quella Russia zarista con cui Londra aveva avviato in precedenza una sotterranea ma sanguinosa lotta (il “Great Game”) per l’egemonia sull’Asia centrale, dal 1835 al 1905.
Lo scontro internazionale, divenuto mortale e irreversibile dal 1907 in poi, tra la weltpolitik tedesca e quella speculare dell’imperialismo britannico risulta la chiave di lettura decisiva delle origini e cause principali della prima guerra mondiale: un’asse e una matrice fondamentale a cui, dal 1898 in poi, si aggiunsero e aggregarono via via anche gli altri conflitti e contraddizioni interimperialistiche, a partire da quelle esistenti tra Francia e Germania per il controllo dell’Europa occidentale (Belgio e Alsazia – Lorena in testa) e tra Russia e Austria, per l’egemonia politica-economica nei Balcani.
Anche lo storico anticomunista N. Ferguson, nel suo libro intitolato “La verità taciuta”, ha riconosciuto in parte tale “fatto testardo” ammettendo le pesanti responsabilità – spesso sottaciute, se non negate del tutto – dell’imperialismo britannico nello e per lo scoppio della prima guerra mondiale.
Andando controcorrente rispetto al trend principale della storiografia occidentale, Ferguson ha notato ad esempio che era scorretta, e in gran parte falsa, la tesi ufficiale dell’imperialismo britannico per cui i suoi circoli dirigenti – allora il governo inglese risultava di matrice liberale ed era guidato da Herbert Asquith, con al suo interno forti personalità quali Winston Churchill (ministro della marina militare britannica) e lord Grey, l’astuto ministro degli esteri di quel tempo – nei fatidici giorni compresi tra il 23 luglio e il 4 agosto del 1914 scelsero di entrare in guerra per difendere il “povero” Belgio, invaso dalla potenza militare tedesca a dispetto della sua neutralità di facciata.
Invece Ferguson dimostrò, in base alle stesse dichiarazioni di Churchill e Grey, come la posta in palio per l’imperialismo britannico risultasse assai diversa e di ben altro spessore, e cioè che a loro avviso la Gran Bretagna “non potesse, per la nostra stessa salvezza e indipendenza, permettere che la Francia fosse sconfitta come risultato di un atto di aggressione da parte della Germania”. Secondo Churchill un tiranno continentale mirava al dominio del mondo. Nelle sue memorie Grey abbracciava le due tesi. «Il nostro ingresso in guerra immediato e compatto», ricordava, «era dovuto all’invasione del Belgio». Ma la mia sensazione istintiva era che dovessimo accorrere in aiuto della Francia. Se la Gran Bretagna fosse rimasta in disparte, allora la Germania avrebbe dominato su tutta l’Europa e l’Asia minore, perché i turchi si sarebbero schierati con la Germania vittoriosa. Stare in disparte avrebbe significato il dominio della Germania, la sottomissione della Francia e della Russia, l’isolamento della Gran Bretagna, l’odio per lei sia da parte di chi ne aveva temuto l’intervento sia da parte di chi lo aveva desiderato e in ultima analisi che la Germania avrebbe avuto mano libera sul continente. Secondo K. M. Wilson questo argomento egoistico era più importante del destino del Belgio, che era enfatizzato dal governo principalmente per placare gli scrupoli di ministri di gabinetto tentennanti e per tenere l’opposizione al suo posto. Più di ogni altra cosa la guerra fu combattuta perché era nell’interesse della Gran Bretagna difendere la Francia e la Russia e impedire il consolidamento dell’Europa sotto un unico regime potenzialmente ostile”. (Ferguson, “La verità taciuta”, p. 34)
La posta in palio, come aveva notato giustamente Lenin dal suo esilio in Svizzera, paese in cui il geniale rivoluzionario russo era arrivato nell’agosto del 1914 e poco dopo lo scoppio delle ostilità, risultava pertanto l’egemonia politica ed economica su scala europea e mondiale: in una polemica del 1916 con il bolscevico Juri Pjatakov, Lenin annotò con esplicita approvazione “un eccellente definizione” (sue parole testuali) elaborata da Karl Kautsky poco prima dello scoppio della guerra, indicante che “in una guerra tra Germania e Inghilterra la questione non è la democrazia, ma il dominio mondiale, lo sfruttamento del mondo” (V.I. Lenin “Intorno a una caricatura del marxismo e all’economicismo imperialista”).
Sempre evidenziando la responsabilità dell’imperialismo britannico nel lungo processo politico, militare ed economico che dal 1898 al 1914 portò all’avvio del primo conflitto mondiale, Ferguson ha sottolineato altresì come a partire dal 1905 la politica estera britannica ebbe come suo fulcro l’individuazione (corretta) dell’imperialismo tedesco come nemico principale su scala mondiale, da indebolire a ogni costo e anche alleandosi con quella Russia zarista con cui Londra si era scontrata, direttamente o indirettamente, per almeno un secolo in Europa e in Asia centrale: anche alleandosi con un nemico storico della Gran Bretagna, come ammise apertamente fin dal 1906 il sopracitato lord Grey, ministero degli esteri inglese dal 1905 al 1916.
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attualmente – come nel 1913 e nei primi mesi del 1914 – il pericolo di una guerra mondiale risulta purtroppo tutt’altro che escluso, a causa fondamentalmente dell’imperialismo statunitense e dell’attuale disastrosa weltpolitik di Washington.
Dobbiamo alzare subito, e di molto, il livello di guardia e non creare illusioni tra le masse.
Forse molti compagni sono a conoscenza che nel 1914 lo studioso Norman Angell arrivò fino al punto di sostenere, in buona fede, che una guerra mondiale non risultava possibile a causa delle fitte relazioni economiche esistenti tra le diverse potenze mondiali e delle disastrose conseguenze di un eventuale conflitto bellico su vasta scala: il tutto solo pochi mesi prima dell’agosto del 1914, nel suo libro intitolato In modo involontariamente ironico “La grande illusione”. Si tratta di una “grande illusione” e di una tesi che è stata ripresa molto meno in buona fede seppur con un identico fallimento teorico, da Thomas L. Friedman nel 1999 con la sua teoria “del McDonald’s antiguerra”, tesa ad addormentare le coscienze dei lavoratori.
Secondo Friedman, infatti, non risultava possibile una guerra fra nazioni al cui interno operassero dei punti di vendita McDonald’s: dopo soli pochi mesi, tuttavia, gli USA patria dei McDonald’s bombardarono a tappeto con i suoi alleati – Italia in testa – la Jugoslavia, proprio mentre a Belgrado potevano essere acquistati e venduti da alcuni anni i prodotti della sopracitata multinazionale statunitense.
Era solo fumo negli occhi e una forma di inganno contro la volontà di pace dei popoli. Tutto questo ciarpame – come del resto le tesi sulla presunta “fine della storia”, elaborate nel 1992 da Fukujama – si è dimostrato in breve tempo solo una forma illusoria di spazzatura ideologica e culturale, ma in ogni caso bisogna sviluppare tra i giovani e i lavoratori la coscienza collettiva della gravità oggettiva dell’attuale situazione politica planetaria, contraddistinta da un sinistro disegno globale statunitense che rischia di provocare fin da subito almeno una terza guerra mondiale “spezzettata”, secondo il giudizio parziale ma interessante espresso nell’agosto del 2014 dal leader indiscusso del Vaticano.
Siamo ancora in tempo per fermare tale opzione e la deriva bellico-nucleare, soprattutto grazie al contropotere globale ormai esercitato su scala globale dai paesi Brics, con in testa la Cina popolare, ma a tal fine serve anche un nuovo livello di sviluppo della mobilitazione delle masse popolari e della classe operaia dell’Europa, possibile e utilissima ma anche se non scontata: bisogna lottare assieme e su scala europea contro i focolai di guerra e contro la dissennata corsa al riarmo di marca statunitense, accettata anche dalla borghesia europea italiana, come nel caso dei costosissimi F-35.
Come ha notato D. Stevenson rispetto al tragico 1914 e al periodo storico che preparò il primo macello mondiale, “un ciclo di preparativi militari in perenne aumento” (ripeto: un ciclo di preparativi militari in perenne aumento) “fu un elemento essenziale della congiuntura che condusse al disastro. La corsa agli armamenti era un prerequisito necessario dello scoppio delle ostilità”.
A mio avviso la lotta su scala internazionale contro le spese militari e i nuovi armamenti, a partire da F-35 e “guerre stellari”, assieme alla battaglia per spegnere i principali focolai di guerra costituiscono i due primi “anelli” della catena che devono afferrare i comunisti* europei per contribuire a scongiurare il reale, concreto pericolo di guerra generalizzata che grava tuttora sul genere umano.
[*Chissà perché solo i comunisti]
 
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